Se lavorassi per Settimana Enigmistica come cruciverbista e mi trovassi ad aggiungere la parola caos, a quel punto dovrei trovarne la definizione e senza incertezze inserirei questa: “Esiste e non esiste”. Inoltre userei l’accortezza di omettere l’avverbio “contemporaneamente”, perché la semplice aggiunta contraddirebbe in partenza il mio concetto di caos, riconoscendo cioè che ci sono margini per valutare questa ubiquità come anomalia. Esiste e non esiste, punto. Ma perché?
Dal punto di vista della natura il caos non è mai stato contemplato nella sua generale progettualità, non ha mai fatto parte della sua road map. Nulla di ciò che la natura ha creato prevedeva il caos, al contrario tutto è preordinato e prevedibile. Perfino il caso è un elemento previsto, programmabile ed essenziale nel flusso espressivo dei prodotti della natura. Il polline che svolazza nell’aria per andare poi a depositarsi chissà dove, i terremoti ancora senza possibilità di previsione, le correnti d’aria folli e senza guida etc. etc.. Gli eventi che stanno segnando il nostro tempo stanno lì a dimostrarlo, tutti i disastri ecologici sono nulla di più prevedibile, il cui allarme fu già dato addirittura circa duecento anni fa da vari naturalisti biologi. Tutto, nella natura, è prevedibile.
E’ dal punto di vista dell’uomo che il caos esiste e non esiste. Si parte dal fatto che lo abbiamo inventato noi nel momento in cui è fiorita una coscienza la quale non riusciva comunque a comprendere le cose. Ciò ha partorito il concetto di caos, un pensiero che aveva un effetto tranquillizzante e confortevole appunto grazie all’effetto comprensione. Nella realtà vista dalla coscienza il caos esiste sempre e ovunque. Quando però la razionalità ha preso il sopravvento e ha donato al caos un senso, l’uomo ne ha dovuto provare gli effetti venefici, trovandosi in conflitto con il proprio innato desiderio di stabilità. L’uomo ha quindi dovuto subito negarlo dandogli, di volta in volta, una spiegazione, una giustificazione, una coordinata, in modo da non cadere nel panico dell’incomprensibile, vero motore della paura interiore.
E’ a questo punto che interveniamo noi, biologi delle metafore, linguisti dei segni, architetti di storie per donare titoli e funzionalità a questo caos, creando moderni graffiti dedicati a questo oscuro, bizzarro, lunatico, umorale e volubile compagno di viaggio con l’intenzione di farne un ritratto.
Per poi scoprire, alla fine, che ha il volto di chi lo rappresenta.
Quando ho deciso di affrontare Dante con il video “Mi chiamo Dante e scrivo sonetti” che presento in questo evento ho pensato che la cosa più interessante fosse parlare dell’uomo, di cui si sa non molto e quello che si sa è difficile da romanzare. Non è un Leonardo con invenzioni e progetti strabilianti, era semplicemente uno scrittore/filosofo/politico, la figura più noiosa che si possa scegliere in un formato di narrazione video. Dante è l’autore più sperimentale, avanguardista, anarchico e democratico degli ultimi 700 anni. Ha tolto le catene a parecchie prigioni, rischiando sulla propria pelle, finendo condannato al rogo come la più banale delle streghe. E un po’ strega lo era, viste le sue sovrannaturali capacità di aggregare tutto il sapere di quel tempo ordinandolo in un universo complesso e organico.
Dante è un inventore. Ha inventato parole, tante parole, i mattoncini di un patrimonio genetico che ci unisce. È stato un Bill Gates: ha inventato il primo vero sistema operativo aperto, passando da quello chiuso del latino a quello aperto del volgare, creando uno spazio sociale condiviso. Ha inventato i parchi a tema. Il buon vecchio Walt avrebbe dovuto allestire una statua del sommo accanto a quella di Topolino all’entrata di Orlando. Tre aree (o forse meglio chiamarli cerchi) per ogni tipo di pubblico alla ricerca di ogni tipo di emozioni. I giri della morte nel primo, solo per cuori forti. Il cerchio inter-medio invece per gli esaltati dei 7 peccati capitali, desideri proibiti a portata di gettone. Il terzo, infine, è un vero e proprio paradiso, da cui contemplare costella-zioni, con montagne russe così alte da cui poter vedere Dio in faccia! Dante ha inventato anche il circo con i trapezisti Paolo e Francesca, facendoli volare senza rete. Nelle tende dei Mostri troviamo il cerbero e i giganti. Per gli ipnotizzatori seguire Medusa.
Dante ha creato i contenitori di un immaginario collettivo. Ha creato Wikipedia, prima ancora dell’invenzione dell’enciclopedia. L’ha resa interattiva, perché tra un personaggio e l’altro, tra uno scenario e l’altro ci sono infinità di link, grazie anche al suo ipertesto di valori e allegorie. Ma Dante, ahimé, è anche un brand che non siamo mai riusciti a rendere franchising, a monetizzare fino in fondo. Quando penso ai ridefinitori della narrativa moderna, ai forgiatori delle strutture del racconto contemporaneo, mi viene in mente il trio magico: Shakespeare, Dante e George Lucas sono i tre uomini che hanno ridefinito gli immaginari moderni a livello planetario. Shakespeare e Lucas però hanno creato le cattedrali insieme ai deserti, riuscendo a imporre dei format che il lavoro di Dante non è riuscito a imporre quando si trattava di solcare quel confine tra la letteratura e il riconoscimento nell’industria moderna dell’effimero. Ma Dante può vantare qualcosa che gli altri non sono riusciti neanche lontanamente a fare: è riuscito a vedere Dio in faccia. Che sballo!
LA DIVINA CON I MEDIA SABATO 23 OTTOBRE presso Multiplo di Cavriago Ore 10.30 inaugurazione: presentazione della mostra, letture a cura di Maria Antonietta Centoducati, videoproiezione del cortometraggio “Mi chiamo Dante e scrivo sonetti” di Daniele Lughini. Ore 15.30 seminario di Gino Ruozzi, “Inferni e purgatori danteschi nei narratori contemporanei”, sull’opera di Dante Alighieri. Ingresso gratuito, prenotazione obbligatoria.Tel 0522373466 – multiplo@comune.cavriago.re.it – wa 3342156870 Sarà richiesto il green pass ad eccezione dei minori di 12 anni o per motivazioni mediche certificate.
Gli Ignavi di Luca Bertolotti Ignavia è una parola praticamente in disuso nell’uso corrente, al contrario invece in quello letterario. Quando si dice ignavia si dice Inferno. Quando si proncuncia, alla mente viene in ordine cronologico prima l’inferno e solo dopo il suo significato. E’ la potenza di Dante e delle sue invenzioni letterarie che scavalcano il significato. Fatta premessa, Luca affonda con la sua arte nel significato vero della parola, toglie dalle mani di Dante il copyright della parola che sposta dall’immaginario al significato. Lo ricontestualizza, gli ridona il tono dovuto e legittimo di parola. Eppure…eppure riesce comunque a non far sparire l’immaginario dantesco. Gli ignavi di Bertolotti sono fuori fuoco ma colpiscono per la lucidità di visione espressa. Indolenti nel non farsi identificare, indolenti nel loro guardare altrove. Gli indolenti ti provocano quell’acido stato d’animo, quella particolare repulsione per quel non stare dove dovrebbero essere, perché noi dovremmo essere le nostre stesse responsabilità, seguirle insieme ai nostri corpi. Bertolotti invece immagina magnificamente questo sdoppiamento, questa traslazione tra persona e propria responsabilità grazie a un intrigante gioco di ombre provocate da luce emessa di un fuori fuoco, che sdoppia e sgrana tutto. Bertolotti pennella le grandi responsabilità in grandi ombre che si staccano da noi e dalle nostre azioni, allontanandosi per andare a risiedere in altri lidi. I corpi no, i corpi rimarranno per sempre fuori fuoco e per sempre dentro l’inferno. E, stavolta, in un nuovo, magistralmente rielaborato e immaginifico inferno. Mostra meno
Enzo Zanni “A riveder le stelle” per la La Divina con i Media Non è il perfetto bilanciamento tra gli elementi, l’equilibrata armonia tra sapzi fisici e vuoti a fare di questa immagine una “cattura occhi”. Non è neanche la sua perfetta monocromia. Questa volta, l”omaggio alla stra-abusata citazione del famoso verso di Dante (“a riveder le stelle”) riesce a regalarci un momento di reale introspezione, un momento percettivo su ciò che ci circonda. Zanni, con questa immagine, riesce a sintetizzare tutto un universo, rendendolo completamente tangibile. La resa espressionista drammatizza l’attimo che immediatamente fugge a celebrare l’infinito. Guardando questa immagine andiamo oltre il semplice rimirar le stelle, quanto a rispercchiarci in ognuna di esse.
Maria Grazia non ha scattato una foto, ha scritto una pièce teatrale. Ha visualizzato scenograficamente quello che Dante tentava di definire con la sua parata di maschere e scenografie, cioè che la vita è teatro in quanto tutti noi, tutte le nostre azioni, tutti i luoghi che incontriamo, tutte le esperienze che viviamo sono maschere, rappresentazioni di qualcos’altro. Maria Grazia ci ha visto giusto: Paolo e Francesca sono innamorati come come lo è un velo dell’aria. Il loro amore (quello dei due e quello dei veli) è imprevedibile e alla mercé di qualcosa di non controllabile. Maria è riuscita a fare un ritratto fotografico che è iper-fantasista eppure così incredibilmente fedele alla realtà di quell’amore perso e immortale, indistruttubile. Proprio come due sottili e leggeri fazzoletti nel vento.
Le venature del cuore. Il drammatico realismo della passione fotografato da Maria Grazia Candiani, il cuore di Paolo e Francesca (per La Divina con i Media – maggio Cavriago) colpisce senza pietà. E’ un cuore che si gonfia e sta lì per scoppiare. Attorno a questo cuore avviene una tempesta. Non c’è amore senza sesso, libera espressione di desiderio, e il rosso telo volante sprizza libidine nell’aria. Non c’è il minimo pudore in questa foto, le nostre segrete voglie sono spiattellate davanti a tutti, sfacciatamente. Dante ci ha raccontato quanto fosse colpito dalla loro passione, Candiani ci riporta in foto anche il turbamento espresso dal sommo poeta. L’amore porta turbamento a chi lo vive, ma anche a chi lo guarda. E noi, di fronte a questa foto, viviamo turbamento.
Ci chiediamo ogni giorno come era prima, come era prima che tutto questo pandemonio fosse iniziato.
E’ un po’ come tutte quelle cose che diamo per scontate: ci rendiamo conto della loro importanza solo quando non le possediamo più. La libertà è la prima (beh, ok, prima c’è la salute, naturalmente). La libertà di espressione, tra le tante libertà. Perfino nei sistemi più totalitari, più militarizzati, più violenti e truci l’arte viene vista pericolosamente.
Perché l’arte è più potente di qualsiasi altra cosa sulla Terra. L’amore? Certo, l’amore, ma l’arte… Per questo noi continuiamo come se non stesse succedendo nulla là fuori. No, non è esatto.
Gli artisti durante le guerre continuavano a fare gli artisti e non potevano farlo se la guerra fosse stata l’abisso da cui non poter più uscire, qualcosa che annichilisse perfino l’ultima delle speranze dell’uomo: la speranza di sperare. I cittadini continuarono a fare i cittadini e gli artisti a fare gli artisti. “A Oriente di Oriente” è il tema del prossimo nostro L’ArtiFestival a settembre 2021.
Continuiamo a guardare oltre i portali della nostra immaginazione e cultura. Vedremo dove stavolta ci porteranno.