La Fantascienza

La Fantascienza

Dovessimo definire la fantascienza in poche parole, potremmo descriverla come una straordinaria avventura dell’intelligenza e della fantasia. Sono questi due cardini fondamentali per lo studio e lo sviluppo di qualunque cultura, così come l’immaginario tecnologico e la tensione verso l’ignoto sono due stimoli imprescindibili per un viaggio di progresso dell’umanità.
Eppure la letteratura fantascientifica sconta una sempiterna considerazione di subcultura infantile. Anche nel cinema, nonostante capolavori di successo come 2001 Odissea nello spazio o la saga di Star Wars, il genere rimane sottovalutato, appesantito probabilmente da un lato dalle tante versioni puerili dell’invasione aliena modellate su “La guerra dei mondi” di H.G. Wells, dall’altro dall’idea prevalente negli ultimi anni per la quale ogni alternativa utopica al presente porterebbe alla catastrofe.
Al contrario, la fantascienza autentica, quella che ha fatto sognare e, perché no, riflettere le tante generazioni da Meliés in poi è quella adulta, irridente e sovversiva, quella che esplora i momenti nei quali la fantasia umana si è spinta oltre i confini del convenzionale, ha descritto in forme metaforiche o allegoriche il mondo in cui viviamo suggerendo un modo di non subirlo adattandovisi bensì di superarlo, quella che narra di sistemi e di economie universali, di società complete e conflittuali: in altre parole utopie, tanto necessarie in quanto ferreamente ancorate alla contemporaneità.


La letteratura fantastica è stata testimone, a volte fedele altre ambiguo, delle grandi speranze e dei grandi in-cubi che hanno caratterizzato il Novecento: l’idea che tutto sarebbe certamente cambiato appropriandosi del “molto che si inventa” a favore dell’umanità, gli ideali di riscatto e libertà, l’inevitabile uscita dalla “preistoria umana”, tutto spazzato via dalla globalizzazione di un capitalismo selvaggio che ha imposto sogni di plastica e desideri fasulli allargando sempre più la forbice ricco-povero e soprattutto dai terrificanti macelli delle due guerre mondiali.
Eppure, in un mondo soggiogato dal pensiero dominante di un presente immutabile (nel cuore dell’Impero, direbbe Asimov) si annida sorniona una “quinta colonna” che offre una via di fuga e suggerisce sogni non omologa-bili, fedele al fatto che la buona science-fiction è per natura sovversiva, foriera di altri mondi, migliori o peggiori che siano. Come scriveva Theodore Sturgeon: “Lo scopo della fantascienza è svegliare il mondo sull’orlo dell’impossibile (l’orlo della Fondazione, sogghignerebbe ancora Asimov, nda) e quindi, nel bel mezzo della sto-ria, studiare e cercare di scoprire qualcosa di nuovo, con la passione dello scienziato che esamina il suo esperimento o di un amante che guarda la persona amata”.


Nessuno è riuscito a descrivere questo orlo dell’impossibile meglio di Stanley Kubrick quando, già nel 1968, con una scena memorabile del suo capolavoro, ci ammonisce sulla progressiva robotizzazione dell’uomo e corrispondente umanizzazione dei robot: “… la mia mente svanisce… non c’è alcun dubbio… lo sento… ho paura… Buongiorno signori, sono un elaboratore HAL 9000, entrai in funzione alle officine HAL di Urbana nell’Illinois, il 12 gennaio 1992… Il mio istruttore mi insegnò anche a cantare una vecchia filastrocca: giro giro tondo… io giro intorno al mondo…” (la disattivazione del computer “ribelle” in 2001 – Odissea nello spazio, 1968). Questa idea di progressiva umanizzazione/robotizzazione è la stessa che ha spinto un autore sensibile come Isaac Asimov a dettare, dopo le tre famose leggi della Robotica, anche quelle dell’Umanica.
Cristalli sognanti (T. Sturgeon), penultime verità (P. Dick), persistenze della visione (J. Varley), metalli urlanti (Moebius), sono tutte visioni pericolose, ma per costruire un altro mondo bisogna avere grandi progetti. “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo” (M. Piercy) e poiché la componente di ogni rivolta autentica, insieme alla disperazione, è la speranza di conquistare un futuro, tanto vale rischiare per uno troppo grande per essere con-tenuto nel mondo attuale.
Un futuro che può anche permetterci di osservare il nostro mondo dal punto di vista del mito, di un luogo nel quale si narra che abbia avuto origi-ne l’avventura umana che nel presente del tempo narrativo si svolge tra stelle, pianeti e asteroidi, a bordo di straordinarie navi spaziali. Un ribaltamento di prospettiva assai intrigante che pone interessanti quesiti etici.
Non si può negare che anche la fantascienza sia stata in buona parte risucchiata nel vortice dell’”immaginario unico”, non a caso da tempo si intravvedono pochi temi e nomi nuovi, ma è sempre in corso una sorta di “guerra dei sogni” nella quale è necessario resistere perché, se è vero che “un popolo che dimentica il suo passato non può avere futuro”, è altrettanto vero un paradosso che appare tale solo a chi non abbia confidenza con le utopie: un popolo che dimentica il proprio futuro, non ha né un presente né una speranza.

UN ARTIFESTIVAL (DIS)ADORNO

UN ARTIFESTIVAL (DIS)ADORNO

sabato 22 e domenica 23 ottobre 2022 – presso Tecnopolo (Reggio Emilia)

“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine”, scriveva negli anni sessanta Theodor W. Adorno nei suoi Minima Moralia. Evidentemente il filosofo di Francoforte sul Meno riteneva il contenitore dell’attualità di quegli anni un po’ troppo ordinato. O, più probabilmente, malamente ordinato. In questi primi decenni del XXI secolo non è difficile sostenere che gran parte dell’umanità ritenga il contenitore attuale malamente caotico. Si potrebbe quindi azzardare che egli stesso oggi direbbe che “Il compito attuale dell’arte è di introdurre ordine nel caos”. Ma alla fine cosa cambia? Se aggiungo acqua fredda a quella calda, o calda a quella fredda non ottengo la stessa acqua tiepida? Se rallento un’auto troppo veloce o ne accelero una troppo lenta non viaggio comunque alla stessa velocità? Ebbene, due cose cambiano: prima la percezione del contenitore, ovvero la realtà del presente nel quale si vive; poi il senso del percorso che si intende svolgere per ottenere il risultato voluto, due direzioni diametralmente opposte. Quali che siano la percezione o la scelta, in ogni caso la parola d’ordine diventa “contaminazione”, la stessa che anima L’Artificio fin dalla sua nascita, e il compito primario dell’arte quello di contaminare sempre e comunque la realtà che la circonda, come è sempre stato nella sua millenaria storia. Per valutare quanto questa contaminazione possa (potrebbe) influire sui sistemi vigenti si può citare la famosa metafora della farfalla: nel 1961 Edward Lorenz, meteorologo del Massachusetts Institute of Technology di Boston, si accorse che bastava modificare di un decimillesimo il valore di uno solo dei tanti parametri che descrivono un sistema meteorologico relativamente semplice, perché il computer in breve tempo fornisse un’evoluzione delle condizioni del tempo del tutto diversa e inattesa.

Da qui la domanda: “Basta dunque il battito d’ali di una farfalle in Amazzonia per scatenare un temporale a Dallas”? E chi può mai stabilire quando e quante farfalle batteranno le ali in Amazzonia o in qualunque altro posto? D’altra parte già Baruch Spinoza aveva spiritosamente notato: “Se il naso di Cleopatra fosse stato diverso non sarebbe cambiato solo il suo volto, ma quello del mondo intero”. Isaac Newton, nonostante la consapevolezza della precisione delle sue equazioni, di fronte al problema delle minuscole interazioni gravitazionali fra i pianeti dovette concludere che “Dio deve personalmente intervenire, di tanto in tanto, per ripristinare l’ordine cosmico minato alla base dalle perturbazioni gravitazionali tra gli oggetti che lo costituiscono” (il Dio dei gap, ndr.).

Se si riavvolgesse il film della vita fino a quell’attimo fatale nel quale due atomi di carbonio si fusero in quel particolare modo nel cosiddetto “brodo primordiale” quante probabilità avremmo che tutto si riproduca col medesimo risultato? Anche dire nessuna sembra troppo poco. Vengono i brividi a pensare che se fosse cambiato anche uno solo dei milioni di miliardi di micro eventi vitali nei secoli forse Giotto non avrebbe dipinto le pareti della Cappella degli Scrovegni, Michelangelo non avrebbe scolpito le Pietà, Tolstoj non avrebbe scritto Guerra e Pace, Doisneau non avrebbe fotografato il Bacio, John Ford non avrebbe girato Sentieri Selvaggi. Chissà, forse Giotto avrebbe scolpito le Pietà, Michelangelo avrebbe scritto Guerra e Pace, Tolstoj girato Sentieri Selvaggi, Doisneau dipinto gli Scrovegni e John Ford fotografato il Bacio. La domanda angosciosa che percorre l’intera storia dell’umanità sul significato della vita si riduce dunque al nichilismo di chi sostiene che in fondo nulla nell’agire di chiunque significa qualcosa? O piuttosto al determinismo di chi crede che anche una singola pennellata, uno scalpellìo, un click determinino un cambiamento nella storia del futuro? In entrambi i casi ci si eleva di fronte l’insormontabile problema dell’imprevedibilità, dunque, in estrema sintesi, il caos, e per ogni artista (non importa se geniale o mediocre) ineludibile il dovere di svolgere il proprio compito per affrontarlo.

Si tratti di placare una tempesta o di agitare una bonaccia l’artista deve tuffarsi nel mare magnum della realtà che lo circonda, consapevole di almeno due cose: una che il caos è parte integrante di ogni fenomeno da che esiste l’universo, l’altra che il caos di noi se ne infischia. Ancora Spinoza ci fornisce la migliore chiusa: “Io vorrei avvisarvi che non attribuisco alla natura la bellezza o la deformità, l’ordine o la confusione. Solo in relazione alla nostra immaginazione possiamo chiamare le cose belle o brutte, ben ordinate o confuse.” Donde una serie di dubbi amletici: anche il caos, allora, altro non è che una convenzione umana della quale, così come il tempo, ci sfugge la reale consistenza? Quanto di ciò che ci circonda è veramente reale e non frutto della nostra immaginazione? Quanto la nostra percezione è condizionata dalla umana nevrotica necessità di fornire risposte semplici a questioni troppo complesse? Essere artisti significa tante cose, una di esse consiste nell’affrontare il timore di vivere accompagnati dalla meraviglia.

Canoscenza e Krasotà

Canoscenza e Krasotà

È superfluo dire quanto possa essere difficile e presuntuoso tradurre col limitato linguaggio dell’immagine lo sconfinato mondo dell’immensa cultura dantesca narrataci dal poeta col mezzo espressivo più ampio a disposizione dell’uomo: la parola. Questo strumento non conosce limiti o confini, può volare altissimo o vagare nelle profondità degli abissi, può esprimere qualunque cosa la nostra mente possa immaginare, reale o fantastica che sia, molto più di qualunque quadro, scultura o fotografia. Non contento di ciò Dante si è anche ingegnato ad inventarsi un gran nu-mero di parole nuove che potessero esprimere meglio la complessità dei suoi pensieri, con questo arrivando ad arricchire enormemente il lessico dell’allora ancor giovane lingua italiana.
Ma io non credo che si debba parlare di presunzione nel caso di questa animosa pattuglia di artisti de L’Artificio della quale faccio parte, che fra l’altro si avvale anche di un agguerrito drappello di scrittori, perché in verità l’unica cosa che siamo certi di possedere in comune col genio fiorentino è il grande desiderio di conoscenza. Per noi affrontarlo non significa tradurlo, insegnarlo o spiegarlo, al contrario noi vogliamo studiarlo, conoscerlo, interrogarlo, convinti che seguendo il suo percorso potremmo alla fine arrivare a cose che non sapevamo neanche di cercare. Vogliamo an-che scoprire se sia vero che una sua commemorazione dopo tanti secoli abbia ancora senso, se sia ancora attuale e come ci possa essere utile.
Sappiamo bene, una nutrita schiera di critici letterari ce lo ha spiegato, che la Commedia è un viaggio attraverso le reali, o presunte tali, condizioni dell’eterna storia dell’uomo, delle sue scelte, dei suoi conflitti e dei suoi princìpi. Dante lo fa interpretando con suprema arguzia l’intera moltitudine degli aspetti nei quali si presenta la fatidica domanda sul significato dell’esistenza del male e la sua straordinaria risposta consiste in quella salvezza che all’uomo può derivare solo dalla Canoscenza, strumento fondamentale per un buon uso di quel libero arbitrio che ci pone immancabilmente di fronte alle nostre responsabilità. Conoscenza, s’intende, immanente ma anche trascendente: per questo l’intera opera dantesca è un compendio di scienza, storia e teologia insieme, declinate ai massimi livelli possibili per l’epoca. Stiamo parlando di un intellettuale universale.


Quanto sia importante questa idea lo possiamo toccare con mano concretamente oggi, purtroppo per noi, in un momento storico nel quale rozzezza e ignoranza sembrano aver messo alle corde artisti e intellettuali che si trovano inopinatamente ai margini della società, persino derisi, la scienza ha perso buona parte della sua capacità di infondere sicurezza, la scuola è maltrattata e gli insegnanti vituperati (pensare che in Giappone l’unica categoria di persone che non era obbligata ad inchinarsi davanti all’Imperatore era proprio quella degli insegnanti). Il rischio che stiamo correndo è inimmaginabile.
Tutti gli eventi che L’Artificio organizza sono un moto di ribellione a questo stato di cose, ma questo forse più di tutti grazie al lascito dell’Alighieri che ormai è talmente permeato, spesso inconsapevolmente, nella cultura popolare da accettare perfino l’uso della parodia, vedi L’Inferno di Paperino o Totò all’Inferno, senza smarrire nemmeno una infinitesima parte della sua nobiltà. Questo è anche il nostro modo di esprimere una co-scienza civile per ripagare il nostro debito verso la società: l’idea infatti che ci sprona, ci lusinga e ripaga dei nostri sforzi è sempre quella espressa da un altro genio più recente, Dostoevskij, secondo il quale sarà la bellezza a salvare il mondo.


Frase di enorme letterarietà, slogan abusato, certo, apparentemente velleitario e soprattutto frainteso, ma non da noi: non siamo così ingenui da credere che esponendo molte più statue del Canova nelle piazze o quadri di Raffaello e Caravaggio negli uffici pubblici, men che meno i nostri ambiziosi lavori, scomparirebbero le ansie e le paure che ci attanagliano, le guerre, la povertà, le ingiustizie (per quanto le forme di Paolina Borghese, il sorriso della Madonna con l’ermellino o l’espressione trasognata di Bacco male non farebbero).
Il “genio crudele” fa pronunciare queste parole al principe Miškin, l’Idiota, ma nel testo originale hanno una rilevanza ambigua, quasi una evocazione lontana di leggerezza profonda. La traduzione italiana della frase dostoevskiana riporta la parola “bellezza” perché è quella più simile a quella russa di mano dell’autore, Krasotà, che non ha una corrispondenza letterale nella nostra lingua e il cui significato è però leggermente diverso: non è un concetto estetico, piuttosto un’idea molto più vicina al senso che intendiamo quando di qualcuno diciamo che è “una bella persona”, ha quindi un significato etico e morale ben più che di avvenenza o esteriorità. Sarebbe bello sapere come l’avrebbe tradotta Dante con una delle sue geniali invenzioni, ma di una cosa siamo sicuri che sarebbe
d’accordo con noi: non esistono belle persone rozze e ignoranti.

LA DIVINA CON I MEDIA
SABATO 23 OTTOBRE presso Multiplo di Cavriago
👉 Ore 10.30 inaugurazione: presentazione della mostra, letture a cura di Maria Antonietta Centoducati, videoproiezione del cortometraggio “Mi chiamo Dante e scrivo sonetti” di Daniele Lughini.
👉 Ore 15.30 seminario di Gino Ruozzi, “Inferni e purgatori danteschi nei narratori contemporanei”, sull’opera di Dante Alighieri.
Ingresso gratuito, prenotazione obbligatoria.Tel 0522373466 – multiplo@comune.cavriago.re.it – wa 3342156870
Sarà richiesto il green pass ad eccezione dei minori di 12 anni o per motivazioni mediche certificate.

Orientalismo e Malinconia

Non v’è dubbio che come idea, concezione o immagine l’Oriente susciti da sempre negli occidentali risonanze culturali e psicologiche assai complesse e interessanti. Ma cosa sia realmente possibile sapere o capire di usi, costumi, arte, letteratura e storia di questi paesi è ben altra questione. Non mi riferisco soltanto all’approccio che può avere una persona comune, certamente proibitivo per quanto viaggi o legga, ma anche a quel mondo accademico che di tutte queste voci ne ha fatto specifiche discipline. Sta proprio in questo l’idea di uno degli intellettuali maggiormente di spicco dell’età contemporanea, il palestinese Edward Said che, convinto di come i campi della conoscenza, le sue fonti, la direzione delle sue osservazioni, siano inevitabilmente condizionati e limitati dall’ambiente sociale e dalle tradizioni culturali, nonché dalle contingenze storiche, ha coniato per questo insieme di studi il termine di “Orientalismo”. Se questo vale per gli studiosi altrettanto può dirsi per il lavoro degli artisti per i quali, anche i più eccentrici, i meccanismi di condizionamento più o meno consci funzionano allo stesso modo poiché si tratta di tracce profonde scritte indelebilmente, per quanto ci si possa ribellare, fin dai primi giorni di vita. In buona sostanza, secondo Said, ogni forma di approccio in que[1]sta direzione sarà sempre una interpretazione, non foss’altro perché qualunque edificio teorico si sia riusciti a costruire, per quanto esso possa essere vicino alla realtà, la sua trasmissione avverrà sempre attraverso una lingua (le forme artistiche sono anch’esse una lingua) che altro non è, diceva Nietsche, che “un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria”. In altre parole, il concetto di Oriente appare una idea attorno alla quale si sono cristallizzati e stratificati significati, associazioni e implicazioni che ne distorcono la consapevolezza.

Un’altra delle complesse tematiche legate alla storica dicotomia Oriente/Occidente riguarda quello stato di confusione e perdita d’identità verificatosi in molte civiltà a causa di crolli d’importanza o di potenza, di effetti dovuti ad anni di dominazioni coloniali o di spirito di emulazione verso altri paesi apparentemente più moderni e felici. Questo aspetto costituisce la tematica fondamentale dell’opera di un altro grandissimo intellettuale contemporaneo, lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura nel 2006, che riflette su quello che lui chiama hüzün (malinconia, in turco). Non si tratta di una forma di tristezza individuale, non riguarda nemmeno una somma di singolarità, è la tristezza di milioni di persone, uno stato d’animo collettivo che Pamuk ci fa leggere nel suo paese attraverso la descrizione di grigiore della gente sul ponte di Galata, nel contrasto fra i grandi palazzi e moschee, monumenti della grandezza
ottomana, e il parallelo degrado di Istanbul. Che cosa abbiamo inteso fare dunque noi de L’Artificio con questo evento “A Oriente di Oriente”, qual è lo scopo, quale l’obiettivo? La risposta migliore sta forse proprio in alcune righe dello stesso autore nel suo saggio “Istanbul” del 2003: «Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull’altra riva, l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme.

Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere». Ho vissuto personalmente questa stessa esperienza e le fascinose sensazioni di quei momenti sono riaffiorate fortissime fin dai primi momenti nei quali abbiamo concepito questo progetto che vuole essere proprio questo: un ponte che si percorre in entrambi i sensi di marcia, un osservatorio dal quale guardare in entrambe le direzioni, un luogo dal quale cercare le domande giuste. Sì, perché il modo per ottenere le risposte migliori consiste nel fare le domande migliori, e le risposte migliori non sono quelle che danno certezze o verità preconfezionate, sono quelle che forniscono utili strumenti per ragionare.

A oriente di oriente – Mostra di arti visive
Tecnopolo, 42124 Reggio nell’Emilia RE, Italia

Seconda edizione de L’ArtiFestival che segue il successo del primo anno.
Sabato 25 e domenica 26 presso il Tecnopolo (Reggio Emilia) dalle 10:00 alle 19:00.

Il tema di questo anno è “A Oriente di Oriente”. Da Mille e una notte ad oggi sono passati più di mille giorni e l’attrazione che l’oriente emana verso l’occidente non è mai svanita.

ENTRATA GRATUITA
Seminari e laboratori gratuiti: ISCRIZIONE OBBLIGATORIA e Programma su: www.lartifestival.org

Esposizione di opere, ospiti internazionali, proiezioni. Pittura, scultura, arti digitali, fotografia e videoarte.

Fotografia europea 2021

Fotografia europea 2021

UNA VISIONE QUI E ORA

Che cos’è il libero spazio per i visionari reclamato da Gianni Rodari se non la definizione più pura del fare arte.
Occorre però intendersi sul significato che si dà alla parola “visionario” che oggi ha acquisito una immeri-tata connotazione negativa: può essere colui che immagina e ritiene vere cose non rispondenti alla realtà o elabora disegni utopistici, un sognatore insomma; oppure può essere una persona particolarmente dotata della capacità di creare situazioni e immagini fantastiche, irreali e di forte impatto visivo, in arte si parla infatti spesso di “talento visionario”; poi c’è quello che da un piccolo elemento concreto riesce a intuire la potenzialità di uno sviluppo fuori del comune e che porta alle grandi scoperte scientifiche, lo scienziato visionario, non quello pazzo.
A me piace pensare questa parola in relazione al tempo più che all’essere, cioè immagino un visionario come colui che riesce a concepire una idea oltre qualunque limite temporale, che sia quello della propria vita o quello della vita di chiunque in qualunque futuro. Ecco perché un artista non può non essere anche un visionario se non vuole che la sua opera si riduca a una mera riproduzione di maniera di qualcosa esistente davanti agli occhi di tutti.
Fare arte però non prescinde nemmeno dall’hic et nunc: se la mente vola al futuro i piedi sono ben piantati in terra quando si vuole che in quello che si fa ci sia un messaggio chiaro e attuale. “Ogni grande opera d’arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l’eternità”, diceva Daniel Barenboim.
Quest’anno ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri: quale migliore esempio della sua Commedia per una visionarietà ben collocata al suo tempo, attualissima ancora oggi e della quale non si intravede nemmeno lontanamente la fine?
Ecco che il tema del mondo fiabesco e visionario di Rodari si presta magnifi-camente alla chiave interpretativa che L’Artificio ha voluto darne con i suoi fotografi.
Fabrizio Artoni si fa coinvolgere da un giorno di performance teatrali “on the air” chiamando alla sveglia l’intorpidita folla degli ignavi.

Claudio Panciroli “s’illumina d’immenso” davanti alla bellezza dell’unica cosa al mondo che appartiene a tutti e che nessuno può togliere a nessuno: un cielo pieno di forte intento metaforico verso l’infinito.
Claudio Salsi gioca con l’immaginazione infantile in modo ironico umanizzando il mondo dei pupazzi con la fantasia di un burattinaio.

Enzo Zanni scaturisce il concetto di infinito fra i due elementi che più gli si avvicinano nel nostro limitato orizzonte umano: il cielo e il mare.
Gianna Casella ripropone l’antico enigma di Giona nel ventre della balena che Collodi ha ribaltato su Pinocchio ponendo il burattino davanti al dilemma di una porta che non si sa dove conduca.
Luca Bertolotti cerca una luce che ci porti tutti fuori dal buio inquietante di una contemporaneità ostica e subdola.
Maria Grazia Candiani vola dolcemente sui sogni bambineschi di una età infantile che non ha limiti per sua stessa natura.
Nero Levrini ci riporta la poetica del fanciullino: quel bambino che c’è dentro ognuno di noi secondo Giovanni Pascoli.
Loretta Costi si libra in un mondo di fantasia con le sue sorprendenti sperimentazioni informali che gareggiano in libertà con le invenzioni fiabesche.
Mimma Magnavacchi ci riporta all’ironia popolare di detti e motteggi di uso comune dalla saggezza atavica.
Flavia Torreggiani si ricorda amorevolmente delle principesse di una volta.
Per parte mia mi immergo in un piccolo mondo dove possono accadere grandi cose, dal dramma alla realizzazione dei sogni.

Il mondo delle fiabe ritorna senza intenti moralistici, soltanto con la sua potenza evocativa, ad indicare che il tempo non è altro che una convenzione umana uno di quei tanti frutti della nostra immaginazione che siamo riusciti a collocare nella nostra realtà e ad utilizzare con una illusione di concretezza come fosse la realizzazione di una utopia ad ammonirci sulla nostra minuscola dimensione fisica e al contempo esaltarci nella nostra infinita dimensione intellettuale. Il famoso slogan giovanile degli anni ’70 “la fantasia al potere” era bello, poetico, ma sbagliato nell’ultima parola: “la fantasia, anzi, la visionarietà alla guida” è quello giusto. Il mondo ha più bisogno di visionari che di eroi.